VISIBILITÀ DELLA CITTÀ

VISIBILITÀ DELLA CITTÀ

Cosa diventa ciò che si vede

  

Si sale verso Fabiano Alto – è un punto di vista strategico per guardare la città – passando da Pegazzano, dove sono ancora fisicamente presenti le mura ottocentesche che separavano il quartiere dalla città militare. Infatti si ha proprio la sensazione, arrivando da via XV Giugno, di varcare una “porta”, nel punto in cui , al termine d’una serie di architetture “a capanna” (ex Artiglieria), le mura ancora proteggono un gioiello di severa e rigorosa manifattura, appena addolcita da alcune modanature liberty: l’acquedotto militare. Cosa non è militare, qui?  

Poco distante uno spazio di uso pubblico (arredo urbano) sorge sul basamento offerto dalle ottocentesche mura  che continuano, a tratti, verso mare e che ricompaiono in prossimità dei Buggi. Di fronte allo spazio pubblico uno spazio “chiuso “, l’Arcimboldo, una ferita nel tessuto sociale cittadino. Ci distrae una curiosa torre-faro in mezzo al verde, ma è un attimo, perché lo sconforto ritorna alla vista dell’ex Parrocchiale di S, Michele, poi ex falegnameria, poi l’abbandono. Anche la superstite epigrafe trecentesca (unica credo nel suo genere)ricorda una calamità: la peste. Finalmente è in corso il restauro della chiesa, avviato con i contributi per il Giubilieo.

Si sale ancora (è possibile scorgere i segni del vecchio camposanto) per raggiungere un buon punto di osservazione sulla città, per guardare e per fotografare, perché è proprio la fotografia che ci fa riflettere sul cosa diventa ciò che si vede.

E’ una lettura della città che va dalle colline al mare e che mette subito   in evidenza  alcuni suoi caratteri e vocazioni.

Le colline, innanzi tutto , dove saltano agli occhi le lacerazioni prodotte da  recenti interventi che contrastano con l’armonia degli antichi insediamenti organici al territorio: Marinasco, Vesigna, Seresa, Strà, S.Rocco, il Fornello, S.Venerio, Isola …

Sotto di noi ecco la città disegnata dagli architetti militari, una città che a metà dell’ottocento contava circa diecimila abitanti, il cui centro storico , allora protetto da mura, è rimasto segnato nelle carte come gli elementi scomposti di un puzzle nel rigido disegno della città nuova.

Sorprende la penetrazione del mare nel tessuto urbano e desta ammirazione la nitida linea architettonica di alcune officine dell’Arsenale che irreali e vibranti il mare ci restituisce.

Viale Fieschi – l’antica Via Militare – è una sottile striscia appena segnata dal morbido e fitto intreccio dei fragili rami invernali dei platani. E’ una  parte di città caratterizzata  da ampi spazi: gli impianti sportivi, il grande lago della zona dei bacini dell’Arsenale, il parco del Colombaio con l’inconfondibile “casa rossa” dove lo stare insieme si accendeva di musica arte e spettacolo. Peccato che questa accensione sia stata troppo breve.

Tutto si profila  e si configura  come in una mappa policroma. Questa sensazione si rompe non appena lo sguardo incontra gli edifici della città, che fanno quinta verso il mare. Il nostro sguardo si perde sulla lettura del tessuto urbano e il pensiero corre ai giorni della guerra, quando la città è stata bombardata e distrutta per un buon sessanta per cento. I segni della memoria, in parte perduti con la costruzione dell’Arsenale, sono stati definitivamente cancellati  e la ricostruzione non ha tenuto conto dei caratteri originali della città.

Qui tutto si esalta e si confonde nella luce che avvolge e toglie peso e aggressività alle strutture portuali; luce che sembra giocare con i cromatismi dei containers, luce che rimodella in quinte trasparenti l’offesa recata alle colline di Pitelli. Anche l’ENEL fa la sua figura e nulla lascia sospettare che tutto il mare che si vede sia stato sottratto alla città.

“La luce per la luce è cattiva luce”*

Leggere la città, un testo che si chiama città, è anche questo.

                                                              

                                                           

Sergio Fregoso

*Renzo Chini, Il linguaggio fotografico, SEI Torino, 1968

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