Carlo Bassi
Architetto, studioso di urbanistica, saggista, Milano.
“Il fotografo e la città”
La dimensione critica e interpretativa che ha rinnovato in molti casi lo studio della storia, Ia lettura di testi classici, I’interpretazione della natura, la comprensione del mondo, compare nella cultura europea negli anni quaranta con un famoso testo di Jean~Pau| Sartre: L’ imaginaire, per noi l’ Immaginario.
Jacques Le Goff la tiene praticamente a battesimo applicandola al suo metodo di indagine storica: “una storia senza l’ immaginario é una storia mutilata, disincarnata ” Siamo negli anni ottanta.
Da allora la fortuna di questa parola, aggettivo diventato sostantivo a tutti gli effetti, é andata crescendo e affermandosi.
A Ferrara nel 1999 si tenne un gran convegno internazionale, L’ immaginario contemporaneo, del quale é recentissima la pubblicazione degli atti presso l’editore fiorentino Leo S.Olschki. E le esercitazioni di figure di grandissimo rilievo nazionale e internazionale sulla carica estremamente complessa di questa parola sono molto coinvolgenti.
Ricordo uno solo di quegli atti che mi pare fondamentale per la comprensione dei valori di questa dimensione interpretativa, quello di Yves Bonnefoy, grande poeta francese, dal titolo L’immaginario metafisico.
Ma perché queste note preliminari a un testo che ha come fine di mostrare come un maestro della fotografia coglie l’immagine (o l’ immaginario?) della sua città o, più rigorosamente, della città?
La ragione è nella convinzione che, più che in altre forme d’arte, nella fotografia la dimensione dell’immaginario sia presente per definizione. Dovremmo dire, per chiarezza, con vari gradi di intensità.
Tuttavia senza una sollecitazione all’ immaginario non esiste documento fotografico credibile, Bonnefoy, nel suo intervento ferrarese, parla a un certo punto della luce con riferimento alla pittura: “La luce con i valori che essa crea,i ritmi che essa svincola dagli aspetti del luogo naturale non e forse, al|’interno del dipinto,all‘origine di una musica,di una struttura vivente, quindi di un intelligibile immanente alle forme, simile all’ordine che la nostalgia dell’essere può solo sognare di catturare nell’intimo delle apparenze?”
Ma se tutto questo si riferisce alla pittura, tanto più Ia luce condiziona la fotografia che vive della luce, tanto più essa ”intensifica le figure” che il clic del fotografo ferma nel|’attimo del suo porsi davanti all’oggetto.
Dunque: la luce e l’immaginario che essa mette in moto.
La luce e la non-luce nella vita e nella realtà dell’ambiente,de|la città, e le immagini mentali,l’immaginario che essa produce.
Eccoci approdati alla ”città” di Sergio Fregoso.
“Era un incontro con la città che ogni giorno, per accumulo, depositava le sue trame nel mio immaginario” racconta Fregoso, il quale, nella sua iniziazione iconica, afferma ancora: “Gli scenari attraversati (e la memoria storica) ponevano domande sulla forma della città, sui percorsi che l’ attraversano, sui colori dei suoi materiali… sugli spazi disegnati dalla luce cangiante…”
Quando diciamo che la città di Fregoso cerca il senso che ha la sua realtà, cerca il sentimento che essa accende (the spirit dicono gli inglesi) diciamo che provoca, a livelli molto alti, l’ immaginario.
Cosa succede in quella strada deserta segnata solo da segnaletiche orizzontali? Quali misteri chiudono quelle persiane in quella loro prospettiva così ordinata nel suo stare e così inquietante nelle sue ombre lunghe?
Potremmo continuare a porci domande di questo tipo davanti a ogni immagine inquadrata e scattata da Fregoso perché il segreto del loro proporsi alla nostra attenzione e alla nostra indagine é la moltitudine di immagini mentali che esse suscitano e che mettono in moto.
Voglio dire che la città di Sergio Fregoso non é quella di Paolo Monti, nella quale la perfezione dell’inquadratura lungamente studiata riesce a trasmettere il senso ”solido” del|o spazio modellato dalle architetture delle strade: senso che accetta solo un immaginario possibile, quello della storia.
Gli scampoli di città di Fregoso vivono invece della multiformità de|l’ immaginario che provocano.Vivono del brusio di fondo che é il rumore della città, vivono dei silenzi metafisici dei portici vuoti,degli androni deserti, di biciclette abbandonate, di lacerti di statue, dei non-luoghi metropolitani che sono le periferie e le banchine del porto.
Sergio Fregoso si colloca in una speciale categoria di operatori de|l’immagine: la particolare confraternita di coloro che, per mostrare la città, non vogliono ”semp|ificare” come suggerisce Italo Calvino, ma vogliono sedimentare dentro la luce i mille attimi di presenza e di assenza che fanno scattare l’immaginario, dai qua|i,fatto il silenzio, cogliere Ia realtà esistenziale del vedere costruito anche con gli sguardi irrimediabilmente perduti.