Cesare Colombo
Nel mondo di Sergio
Un piccolo ricordo personale mi riporta ahimè alla fine degli anni 50. Ero poco più di un un ragazzo, lavoravo nell’ufficio Pubblicità di un’azienda fotografica, l’Agfa. Controllavo i display giganti presso i negozi e intanto provavo le nuove pellicole Agfacolor ‘rapide’, attorno ai 200 Asa. A La Spezia, i piccoli carri a mano dei venditori di ortofrutta si stagliavano netti, nel vento d’inverno, contro le scalinate quasi deserte. Sergio, che gestiva un importante fotolaboratorio in città, mi portò nel pomeriggio a Monterosso. Dove gruppi sparsi di turisti tedeschi – o forse olandesi – avanzavano controluce avvolti negli impermeabili. E camminavano a fatica su quei ciottoli tormentati dalle onde, che io ricordavo evocati da Montale.
A Monterosso cominciò un’ amicizia che tra silenzi, rapide telefonate e incontri ‘cu|turali’ si é trascinata fino ad ieri. Sergio ha fatto il fotografo per cinquant’anni.
Ma non era un fanatico della tecnologia né sottolineava mai i dati formali delle proprie immagini; o di quelle che a migliaia gli venivano poste sotto lo sguardo, che discuteva coi ragazzi, che faceva esporre nei luoghi meno usuali. Al contrario cercava ogni volta possibili messaggi interni, testimonianze personali e collettive ‘attraverso’ le fotografie. Le considerava infatti, come molti intellettuali della sua generazione, dei ponti visivi. Sui quali transitavano messaggi complessi, non riducibili alla superficie dei soggetti.
Dalle finestre di casa sua, in piazza Brin, un memorabile audiovisivo (prodotto col Gruppo AV 70 nel 1971) descriveva il casuale flusso dei passanti e intanto evocava -— attraverso le voci interne, i dolenti sospiri dei vecchi — un mondo di segrete atmosfere domestiche. Questo coesistere di un‘adesione vitale, inesauribile, al mondo che irrompe di fronte a||’obiettivo, assieme alle ostinate ragioni individuali… resta un tratto costante in tutte le fotografie e nella vita stessa di Sergio Fregoso. Dietro le barche a riposo, appaiono emblematici pescatori~ pensionati. Navi, funi, biciclette, vecchie tende colorate… appaiono come una traduzione stilisticamente ‘co|ta’ della propria esperienza quotidiana.
ll peso dei giorni, i segni de|l’esperienza e del lavoro umano sono presenti anche in questa sequenza sulle Cinque Terre. Le ripide coste appaiono sempre modellate, ed in certo modo sofferenti. I colori delle antiche emulsioni — un po‘ deteriorati, a quasi mezzo secolo dalle riprese – appaiono anch’essi segnali misteriosi di una trasformazione in atto. E Sergio stesso, parlando delle sue esperienze operative, evocava spesso |’antica durezza del lavoro femminile, il trasporto a spalla dell’uva (prima che arrivassero i ‘trenini’) lungo strettoie sassose. Naturalmente nei suoi discorsi non c’era alcuna nota di rimpianto: ma la consapevolezza del tempo, con le tante dolorose microstorie che diventano poi la storia.
Non solo vigneti. Le coppie di teenager, che dagli anni ’80 percorrono |’ allargato sentiero dell’Amore e bevono un bicchiere seduti sulle pietre nel tramonto, appaiono come una sorta di metafora della visione civile di Sergio. Sempre pronto a capire, ad aggiornarsi, ad allargare il proprio sguardo, a rinnovarlo discutendo a lungo — me Io ricordo — davanti a cento ingrandimenti stesi sul pavimento, o alle diapositive sue e degli amici proiettate alla sera sui muri. Riconosciamo insomma, in queste inquadrature di Sergio, un’ adesione poetica ma non astratta alle tradizioni del suo territorio: di cui sapeva anche contrastare le devastazioni.
Contemporaneamente, leggiamo un suo perenne tentativo di legare passato e presente, forse la testarda illusione di una continuità… che in realtà era solo quella della sua esperienza esistenziale. Prezioso testimone visivo, dunque, ma anche polemico interlocutore verso gli pseudo-valori del consumismo di massa. In questo infaticabile camminatore con la reflex al collo, dalle banchine del porto spezzino fin dentro le macchie pin] fitte e odorose del Golfo, ci piace onorare una figura non dimenticabile di ‘artista civile’.