Un’intervista a un fotografo:
Sergio Fregoso
a cura di Davide Parmigiani
Sergio Fregoso nasce alla Spezia nel 1927 nel quartiere umbertino, un quartiere operaio. Dopo la guerra viene assunto da una società elettrica, attraverso quest’esperienza capisce che la luce è un elemento indispensabile per la sua espressività. Comincia a fotografare, parte dalla sua città e vi ritorna maturato. Fonda, insieme ad alcuni amici, il gruppo AV70 che si incarica di produrre audiovisivi mediante i quali inizia un’opera di educazione all’immagine e ai suoni in molte scuole della città. Il gruppo si consolida nel Centro della comunicazione, nato in collaborazione con il comune, avvicinando il territorio e i media. Recentemente è stato costituito l’Archivio della documentazione fotografica e multimediale dedicato nel 2003 a Sergio Fregoso, poco dopo la sua scomparsa. L’archivio è divenuto la memoria storica, visiva e audiovisiva della città, incarnata da Sergio. L’intervista che segue è stata realizzata dal curatore del volume nel novembre 2001 per preparare un seminario sugli audiovisivi tenuto alla facoltà di Scienze della formazione l’undici dicembre dello stesso anno nell’ambito del corso di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento compreso nel curriculum della laurea in Scienze della formazione primaria.
Quali possono essere le parole-chiave di un audiovisivo, se ci sono?
Noi abbiamo sperimentato che, offrendo un mezzo che riguardava gli occhi e l’udito, cioè l’audio, il rumore, anche la restituzione dello spazio avveniva attraverso un qualsiasi evento sonoro. Siamo partiti da molto lontano. Abbiamo accompagnato i ragazzi quando finisce la mattinata e vanno alla mensa e abbiamo registrato con due microfoni che tenevano i ragazzi, dal terzo piano al pianterreno gli eventi sonori e an-che durante il pranzo. Quando, il giorno dopo, abbiamo fatto risentire gli effetti, c’è voluto molto tempo per selezionare i vari rumori e come il rumore veniva, poi, modificato nella registrazione acquistando un altro valore, perché in quel momento non ti accorgevi che c’era questa coralità. Le porte che sbattono, i passi, soprattutto i passi, la scala amplifica e mette in evidenza le frequenze più alte, un gridolino, un fischio, un raschiamento di qualcosa.
Quindi abbiamo cominciato a far lavorare i ragazzi sulla scoperta di una realtà che non si vede, perché noi siamo abituati a chiamare realtà le cose che si vedono; invece, c’era il risvolto di una scoperta di una dimensione della comunicazione che andava al di là di quello che vedevi e di quello che potevi intuire, infatti alcuni avevano fatto delle osservazioni. Ricordo. Se chiudi gli occhi e passa qualcuno dietro di te, te ne accorgi.
In seguito, abbiamo lavorato chiamando in causa la manualità facendo fare le diapositive, cioè le trasparenze, da loro stessi, prendendo i telaini con il vetro che si aprono a libretto, selezionando dei materiali che avevano la qualità di far passare la luce oppure di impedirlo, per cui avevi anche questa scoperta di fogliettini trasparenti colorati che, sovrapponendosi, cambiavano tinta oppure non ti facevano più vedere il colore anche se erano colorati. È stata una scoperta grande per i ragazzi, riuscire a fabbricare un’immagine.
Mettendola, poi, nel proiettore, c’era da superare quello che si chiama lo standard, perché un linguaggio di comunicazione deve passare attraverso uno standard. Se io fabbrico una trasparenza e la mando alla scuola dell’altro quartiere, il proiettore che hanno lì deve ricevere questo messaggio. Quindi devo indurre una disciplina ad organizzare i telaini, non si possono fare dei sandwich che superino i due millimetri e mezzo, e anche i telaini devono essere 5×5 e questo era già un primo passo per far capire la necessità della standardizzazione ma non in negativo, ma per facilitare lo scambio.
Questo ha portato anche alle prime informazioni sulla percezione visiva, perché i telaini non avevano un soggetto riconoscibile, anche se alcuni avevano disegnato coi pennarelli la figura o un oggetto. La maggior parte erano una quantità di materia che occupava uno spazio, un campo in cui avvengono molte dinamiche. Infatti, girando il telaino, dava una sensazione diversa, metteva in evidenza cose che ti davano la possibilità di discutere su come vediamo quello che si vede.
Quali sono gli elementi dell’audiovisivo e le sue valenze educative?
L’insegnante, se sa accompagnare l’esperienza con la curiosità della ricerca, fa diventare l’audiovisivo una comunicazione interdisciplinare perché non ha bisogno solo di una cosa, ma ce ne vogliono tante. Il punto nodale è sul linguaggio. Chi vive un’esperienza anche fortissima, se non ha il linguaggio, se non sa trasformare in linguaggio quell’esperienza, non la può comunicare, tant’è vero che in molte realtà riescono a comunicare quell’esperienza delle persone che non la vivono ma che vanno per capire come gli altri vivono quell’esperienza, quindi credo che il punto su cui lavorare sia proprio il linguaggio cioè la possibilità di rendere comunicabile un’esperienza.
E per voi, come gruppo che realizzava audiovisivi, i linguaggi preferenziali sono stati quelli del suono e dell’immagine?
Il suono, l’immagine e i rumori delle strumentazioni, non tralasciando nulla. Il proiettore che usavamo e che usiamo è il carousel. La ventola, lo scambio – trac, trac – che era una guida anche temporale. Difatti, il problema di ogni comunicazione strutturata per essere poi comunicata deve durare un certo tempo. Quanto dura un audiovisivo? Se tutti dicono: «È già finito?» Vuol dire che va bene, ma se tutti cominciano a scalpitare, vuol dire che non va bene.
Ma come si fa a sapere come distribuire nel linguaggio audiovisivo le varie fasi del racconto? Noi adoperavamo quei nastri delle calcolatrici e se c’erano una o due pareti libere nella classe incollavamo questa striscia nelle pareti poi vedevamo la lunghezza e la si divideva in centimetri, ogni segno era un secondo e quando arrivavi al minuto facevi un segno rosso e così via. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che quando fai un audiovisivo, prima devi fare un soggetto quindi devi esprimere un’idea, l’idea dell’audiovisivo che non è ancora l’audiovisivo, è l’idea. Quanto deve durare? Tre minuti. Di più non serve. Perché le cose fatte in una ristrettezza di tempo è come passare dalla porta stretta, ti obbligano a dire le cose essenziali per farti capire. Se in questo racconto, veniva un’idea, che poi è il soggetto, lo svolgimento del racconto, devi passa-re alla sceneggiatura, devi dividere, selezionando come nei fumetti, quello che succede in quel quadro che unito agli altri danno la sequenza dell’avvenimento. La prima immagine quanto deve durare? Fai i conti, i ragazzi decidevano per tre secondi, allora fai un trattino. La seconda quanto deve durare? Se la prima era tre secondi, ora può durare quattro. E così via, di seguito con tutte le immagini che devono poi figurare nell’audiovisivo. Se tu arrivi a metà di questo nastro e devi ancora raccontare tre volte tanto di quello che è successo, non ci siamo. Questa era una disciplina, e i ragazzi si divertivano ad organizzarsi. Perché fare questo? Per cercare il ritmo, la scansione del tempo non dipende da noi, il ritmo invece non è scritto, perché il ritmo è qualcosa che ci appartiene, è corporale, è viscerale.
Questi erano gli audiovisivi preparati in maniera molto dettagliata…
Si trattava di offrire un mezzo, però c’era la funzione didattica.
Possono esistere audiovisivi che nascono da immagini prese casualmente?
Si, abbiamo fatto anche questo.
E qual è la differenza?
La differenza sostanziale è che l’audiovisivo fatto coralmente, partecipato: idea, soggetto,…dava più soddisfazione, il resto era un bel gioco, ma che ti serviva per capire le astuzie da usare poi nell’audiovisivo fatto con un metodo di ricerca, era propedeutico. Si mescolavano a volte le dia, le mettevamo in un sacchetto e le tiravamo su una alla volta e le disponevamo. Questa era un’occasione, anche se non c’era nessun nesso fra un’immagine e l’altra, di farlo trovare…e si trovava. C’è sempre un legame e questa era un’ulteriore possibilità di ricerca. Non è detto che due immagini non creino una terza idea, anzi sono fatte apposta. Ma questo succede anche se prendi da un giornale o una rivista un’immagine, la metti in una pagina e la guardi, poi ne prendi un’altra, la metti a fianco, le cose cambiano perché c’è fra di loro un’associazione, una dissociazione, un contrasto, un incontro e questa è la sapienza di fare lavorare le sensazioni.
Noi lavoravamo molto sulle sensazioni di tutto il corpo e di quello che c’era attorno. Se tu disegni, tocchi, metti in fila le dia, infili il caricatore oppure lo appoggi, schiacci i tasti del sincro, quei meccanismi che registrano su nastro gli impulsi. Se tu hai una serie di diapositive e le proietti con un fondo sonoro hai la necessità del cambio delle diapositive. Esistono dei registratori che registrano gli impulsi per cambiare le dia automaticamente.
Se l’utilizzo dell’audiovisivo nella scuola di ieri era più scontato per il fatto che non esistevamo molte tecnologie, in una società come quella di oggi così mediatica, l’audiovisivo ha senso? Ha senso con le tecniche di ieri oppure bisogna ricercare un rapporto con il computer che, ovviamente, tende a sostituirle?
Abbiamo fatto una prova in questo senso. Abbiamo proposto in piazza Brin, ai giovani, l’audiovisivo di piazza Brin realizzato nel 1972. Quello che ha stupito e ha anche provocato un’attenzione forte, è stata la calma del messaggio. Oggi i tempi dei messaggi radiotelevisivi sono incalzanti, questo modo di raccontare, invece, indica serenità. La forza dei nostri audiovisivi, a parte il primo, è che non hanno voce, non hanno parlato, il suono fa anche da voce, da voce recitante. Nel primo, La memoria delle cose, c’è anche una voce, ma una voce che non parla di quello che vedi, bensì che racconta una favola su quello che vedi. In quel caso aiuta perché non c’è una contemporaneità, ma c’è sempre uno spazio che il racconto ti lascia per lavorare nell’immaginario.
Quello che abbiamo visto con stupore è proprio l’attenzione che danno perché è un altro linguaggio, non è quello delle sovraimpressioni velocissime, che sono bellissime, in pochi secondi racconti la sequenza di un evento. Noi lavoravamo su altri tempi e altri ritmi e vedo che funziona. Anche oggi nel video con le camere digitali, puoi scorrere i fotogrammi e aggiungere delle immagini ferme a passo uno, per enfatizzare il racconto, per aprire una parentesi, per sottolineare un evento contemporaneo o consecutivo.
L’opposizione fra analogico e digitale, allora, non sussiste.
Assolutamente no. È necessario che, per porgere questi lavori, ci sia qualcuno che, effettivamente, dialoghi con l’ascoltatore, con chi sta a vedere, perché devi introdurre questo tipo di messaggio. E poi cosa vuol dire analogico o digitale. L’analogico lavora sulle somiglianze, però se tu pensi che il digitale traduce in un nuovo alfabeto, quello dei numeri, le cose tornano, perché Pitagora diceva che le cose sono numeri. Io credo che il problema sia la destinazione d’uso. La tecnica è un crocevia, è una possibilità per avere o per aprire tante strade, perché non usarle?
Dal punto di vista tecnico, la risoluzione di un’immagine generata da una diapositiva è diversa da quella prodotta da un videoproiettore?
Lo sfaldamento dell’immagine indotta da un videoproiettore, può esserne il fascino. Io credo che sia un rapporto individuale che devi stabilire. È vero, la diapositiva è corposa, è materica, addirittura in rilievo come il cinema, però il videoproiettore ha prima di tutto delle colorazioni che sono effettivamente affascinanti, è come vedere un quadro di un pittore materico e vedere poi un’incisione fatta a bulino.
L’approccio corretto di un audiovisivo moderno potrebbe dipendere da una persona?
Il mediatore. Perché i mezzi si devono porgere. Anche il pixel può diventare una conquista emotiva, può essere ritradotto in analogico. Pensa anche alla comodità. Andare in giro con il proiettore, con il registratore, con il sincro,…invece puoi andare in giro con un disco. Però questo disco non deve essere una soluzione riduttiva, deve essere accompagnato da chi porge il mezzo e che sa come deve essere consegnato questo materiale a chi è lì a vedere e a sentire. Credo che questa mediazione sia irrinunciabile. Anche il libro che arriva da solo, se rimane chiuso a che serve? Io non credo al conflitto fra libro e disco perché chi ha la curiosità di sapere sceglie quello che è il più aderente per quella risposta che vuole avere in quel momento. Il mezzo è un mezzo ma non è solo quello. Devi gestire il mezzo, non devi essere gestito, allora devi recuperare la tua individualità per recuperare il linguaggio.
Che consigli si possono dare a coloro che avvicinano le tecniche audiovisive?
Io ritornerei ai cantastorie, quando andavano in giro con un tabellone e con una canna indicavano le varie immagini. Chiamare per nome le immagini e chiamare per nome le cose che si vedono nelle immagini. A questo punto devi fare i conti con le scoperte che puoi fare e anche con le cose che trovi e che non sai nominare. Quante parole si perdono perché non esistono più gli oggetti da nominare. Questa capacità di tentare di attraversare un’esperienza originaria, ti induce a trovare i mezzi più diretti per quel determinato uditorio, specialmente se si tratta di scuola. Una fotografia d’epoca ti fa parlare di più che una fotografia contemporanea semplicemente per le cose che ci sono e che non vedi oggi, gli abiti, i cappelli i colletti, le pose delle persone, questo ti porta a far vivere oggi un’immagine di cent’anni fa. Anche nel nome audiovisivo intendiamo forse un oggetto che ha poca circolazione, è visto da pochi, non ha una grande distribuzione. Questa distribuzione limitata è un vantaggio perché è prodotta da una comunità per la stessa comunità. Ma non è fine a se stessa. La circolazione limitata non significa che non ha le qualità per essere visto da una comunità più vasta, ma dipende proprio per i mezzi che l’audiovisivo impone, perché bisognerebbe avere la certezza che, dall’altra parte, hai gli stessi strumenti. Per questo motivo, abbiamo deciso di distribuire gli audiovisivi con il nastro, di tradurre in video gli audiovisivi e sono diventati un’altra cosa. Hai dei vantaggi: la possibilità di passare da una diapositiva ad un’altra dolcemente, inoltre togli i tempi morti, ma per noi erano una cosa fondamentale, perché la non-immagine, il buio ha una capacità emotiva, a volte molto più forte della stessa immagine, perché ti dava la sensazione che perdevi l’immagine ma acquistavi un evento sonoro che in quel momento veniva comunicato.
Tratto da: Davide Parmigiani (2004). Tecnologie per la didattica. Milano: FrancoAngeli (pp. 46-50).